La paura nella famiglia. Come funziona e come si previene il contagio emotivo
Cosa intendiamo per paura all’interno della famiglia? Come si fa a trasmettere, a contagiare, dai genitori ai figli? Cosa possiamo dire ai genitori alle prese con questa complessità emotiva?
A rispondere alle domande e a fornirci una panoramica sul tema è Giulia Rinaldi, psicoterapeuta, ricercatrice ufficiale, docente del Centro di Terapia Strategica.
Il ciclo di incontri “Esperienze di Psicoterapia Breve Strategica” è condotto da Veronica Aloisio, psicoterapeuta, ricercatrice ufficiale e docente del Centro di Terapia Strategica.
LeggiLa solitudine degli adolescenti – Intervista 22.06.2023
Cosa s’intende per solitudine giovanile? Quali sono i fattori caratterizzanti e indicatori del fenomeno del ritiro sociale? Quali sono i pro e i contro dell’utilizzo di Internet? Risponde alle domande Giulia Rinaldi, psicoterapeuta, ricercatrice ufficiale, docente del Centro di Terapia Strategica e coautrice assieme a Michele Dolci, Elisa Balbi ed Elena Boggiani del libro “Adolescenti Violenti”, edito da Ponte alle Grazie. Il ciclo di incontri “Gli autori raccontano” è condotto, per il mese di Giugno, da Cristina Di Loreto, psicoterapeuta, ricercatrice ufficiale e docente del Centro di Terapia Strategica.
LeggiLa Paura Ereditaria – Conferenza Web Lact – 24 Marzo 2022
La Paura Ereditaria
RELATORI E SINTESI DEGLI INTERVENTI – 24 marzo 2022
Conferenza e workshop sotto la presidenza del Dr. Patrick BANTMAN.
APERTURA WEB-CONFERENZA
16:00 – 16:15: Benvenuto di Grégoire VITRY e del Dr. Patrick BANTMAN
16:15 – 16:40: Conferenza del Dr. Patrick BANTMAN: “La paura può essere trasmessa tra generazioni?”
16:40 – 17:10: Domande e risposte dal vivo con il Dr. Patrick BANTMAN
17:10 – 17:30: Notizie e ricerche di Grégoire VITRY e Olivier BROSSEAU
LABORATORI
GRUPPO 1:
dalle 18:00 alle 19:30 – Moderatrice: Amélie DETOLLENAERE
Jean-Paul GAILLARD: “Violenza familiare, abbandono emotivo e traumi complessi. »
Ragazzo AUSLOOS:
GRUPPO 2:
dalle 18:00 alle 19:30 – Moderatore: Grégoire VITRY
Claude DE SCORRAILLE: “Sono nato il giorno di Saint Perfect e non sono l’unico”
Dominique STEIMLÉ: “Paura: l’istinto di sopravvivenza senza fiato”
GRUPPO 3:
dalle 18:00 alle 19:30 – Moderatore: Vira HENG
Giulia RINALDI: “Una riflessione trasversale su come reagire alla Paura: nell’individuo, nella famiglia e nella comunità”.
Emanuela MURIANA: “Una riflessione trasversale su come reagire alla Paura: nell’individuo, nella famiglia e nella comunità”
Link per iscrizione webinar: https://www.lact.fr/international-webinar
LeggiQuando pensare fa soffrire: il dubbio, da strumento a patologia
Lo psicologo Giovanni Albertini e la psicologa-psicoterapeuta Giulia Rinaldi ci introducono al tema del dubbio patologico
«Quando pensi di avere tutte le risposte, la vita ti cambia tutte le domande»
(Charlie Brown)
Conoscenza e dubbio sono due facce della stessa medaglia. Se, infatti, non mettessimo in dubbio i dati della nostra esperienza sensibile, o i fatti che ci passano per la mente, difficilmente potremmo giungere a sapere qualcosa.
L’umanità del resto ha fatto e fa i suoi passi avanti a partire proprio dalla capacità e dal desiderio di sapere, e lo fa anche attraverso il dubbio.
D’altro canto ci sono persone che non riescono a destreggiarsi in questi dubbi e soffrono delle loro eccessive manifestazioni.
Cercheremo brevemente di indagare l’origine del dubbio e i suoi lati “generativi” e quelli “patologici”.
Il dubbio come strumento
Una mente incapace di dubitare sembra quasi una contraddizione di termini, e infatti il dubbio è uno degli strumenti più potenti e al tempo stesso divisivi del pensiero. Da una parte ci sono coloro che ritengono che il dubbio debba essere utilizzato poiché non c’è una verità definita, e che essendo l’uomo “misura di tutte le cose”, come diceva il filosofo Protagora, ci sia un bisogno costante di ricercare perlomeno una conoscenza, che spesso dipende dal punto di vista di chi la guarda.
Dall’altra parte c’è l’apparentemente più rassicurante posizione di quella tradizione di origine platonica che ritiene che da qualche parte una Verità ci sia1 .
In questo conflitto tra le due posizioni emerge la natura demonica del dubbio, in quanto gesto che è nello stesso tempo necessario alla conoscenza del vero ma paradossalmente deleterio per il mantenimento di una verità cristallizzata – il “dogma”. Se infatti esiste una verità – sia essa rivelata, scoperta, immaginata, desiderata –, qualsiasi disquisizione su quella verità è da denigrare, poiché diviene immediatamente menzogna, malafede, eccessivo desiderio di libertà e quindi eresia nella sua stessa intima natura. O si sta nella luce della verità o c’è il rischio di diventare dei paria dove sarà “pianto e stridore di denti”, assieme agli altri eretici. Del resto il termine “eretico” deriva dal greco e significa proprio “colui che sceglie”.
Portando seco questa ambiguità, nemmeno tanto ben celata, lo strumento del dubbio attraversa la storia del pensiero, da S. Agostino, Galileo, Cartesio e Spinoza, fino a Hume, Kant, Nietzsche, Gödel, Schrödinger, Einstein, Popper solo per citare alcuni celebri nomi.
1 Questo concetto si può trovare per esempio nella Repubblica di Platone.
Quando il dubbio è generativo
Si è già accennato al dubbio come a uno strumento del pensiero, anziché al pensiero stesso. Vi sono molteplici esempi di come questo strumento sia stato utilizzato con profitto, in modo generativo.
Uno su tutti è il dubbio cartesiano: il noto filosofo Cartesio, principiando dal dubbio di essere ingannato da un dio malvagio, che gli fa percepire un mondo dove c’è il nulla, arriva alla comprensione della sua stessa esistenza, proprio in virtù del fatto che dubita, e dubitando “cogita”, cioè pensa, e questo è il primo ancoraggio che ha con l’esistenza, che si riassume nel celebre motto “cogito ergo sum”2 .
Galileo Galilei punta il cannocchiale verso il cielo, in un atto che è eretico di per sé. Il dubbio verso le cose celesti, considerate come immutabili, fa nascere la scienza – un nuovo strumento, un nuovo metodo – e intacca la nostra prospettiva antropocentrica, spostandoci dal centro dell’universo alla periferia.
Esiste addirittura la “scuola del sospetto”: Marx, Nietzsche e Freud3 . Il primo dubita riguardo la distribuzione della ricchezza, il secondo dubita la morale, l’ultimo dubita dell’Io. Questi pensieri hanno permesso di stravolgere l’immaginario collettivo tradizionale e hanno innescato quei cambiamenti sociali che hanno attraversato l’intero Novecento.
2 Caresio, 1990.
3 Ricoeur, 1967.
Quando il dubbio diventa patologico
Quando è che il dubbio ci si ritorce contro?
Potremo dire che questo inconveniente ci accade quando il dubbio minaccia di diventare il pensiero e ci impedisce di progredire con la nostra vita.
L’ILLUSIONE DI POTER TROVARE UNA SOLUZIONE A TUTTO
Ci si può trovare preda di un pensiero martellante, si entra in dialogo con se stessi nel tentativo di fermarlo, o di scacciarlo o di trovargli una soluzione razionale. In alternativa può essere che si cerchi di evitare questo pensiero, incappando nella psicotrappola del pensare di non pensare, e non ci si accorge che pensare di non pensare è già pensare. È quasi impossibile barare scientemente con se stessi.
In questi casi le varianti di pensiero sono pressoché infinite, dalla paura di far male a sé o agli altri, alla vergogna che ci tormenta per qualcosa che è accaduto in passato, fino al cercare certezze assolute di qualcosa che si teme, come un tradimento, come è ben rappresentato in alcune tragedie, come in Otello o nella Ricerca del Tempo Perduto di Proust4.
Il tentativo è sostanzialmente quello di scacciare il ricordo, colmare la paura, risolvere un dilemma, attraverso un procedimento razionale. Questo tentativo risulta particolarmente difficile da portare a termine, avendo a che fare con qualcosa che razionale non è.
L’Otello di Shakespeare5 si tormenta con il dubbio che la moglie Desdemona gli sia infedele. Il suo dubitare sfrenato, alimentato anche dall’infido Iago, lo porteranno a metterla alla prova fino a creare da sé gli equivoci che culmineranno in una fine infausta. Situazioni simili capitano anche nella vita al di fuori della narrazione.
Forse meglio di tutti lo sa Charlie Brown, che apre questo articolo, il quale intuisce che quando pensi di aver trovato delle risposte, emergono altre domande a cui, in precedenza, non si era pensato. E allora si riparte con un altro giro di giostra dentro il labirinto della nostra mente.
4 Proust, 2001.
5 Shakespeare, 2013.
L’ILLUSIONE DEL “CONOSCI TE STESSO”
In altri casi ci si può trovare a cercare di realizzare il motto delfico “conosci te stesso” (gnothi sautón). A prima vista anche questo obiettivo sembra sensato e moralmente elevato, capace di donare una certa ‘profondità’ a chi vorrà metterlo in pratica. D’altra parte troppo spesso non si tiene conto che, come disse Rimbaud6 , “Je est un autre” – “Io è un altro” –, nel vero e proprio senso della parola. Il tentativo di conoscere tutte le nostre parti e di ridurle a processi logici, è illogico fino alla follia, poiché si dimentica che la logica, come il dubbio e come la scienza, è solo uno strumento, e che dentro di noi siamo esseri stupendamente ambivalenti.
Quando cerchiamo di conoscere la completezza della nostra interiorità accadde che il pensiero ci si ritorce contro e diventa un nemico. Quando ci sembra di avere raggiunto un porto sicuro c’è sempre questo “altro” dentro di noi, che sgomita per uscire, che disfa le certezze così duramente conquistate, e ci riporta al largo. Chi sta in questa condizione scopre di esser in una posizione di affaticamento mentale, di fatica di pensare.
6 Rimbaud, 1993.
DUBBIO E TECNOLOGIA
Anche la tecnologia può influire sul dubbio patologico?
Nel libro “Tre uomini in barca”7 il protagonista si trova a consultare l’Enciclopedia Britannica per via di un doloretto che accusa. Si accorge che i sintomi corrispondono perfettamente a quelli di una malattia mortale. A quel punto gli cade l’occhio sulla voce successiva, e scopre di avere anche quella malattia. A furia di leggere uscirà dalla biblioteca piuttosto spaventato, convinto di avere tutte le malattie del mondo.
La differenza tra il protagonista di quel romanzo e la nostra contemporaneità è che quella ‘conoscenza’ è sempre con noi, con una mole di informazioni decuplicata, e il cui accesso richiede un minimo sforzo.
Chi non si è mai sorpreso a cercare qualche sintomo che sente su internet? O chi non ha mai cercato una parola, il nome di una attrice che non ricorda, il significato della vita, i dieci modi per tagliare il cavolo, le soluzioni certe a questa pandemia?
Questa tendenza a ricercare risposte immediate e rassicuranti e parziali a ogni nostro interrogativo è una delle strade maestre verso un dubbio non più generativo ma patologico, poiché diviene una specie di rituale incontrollabile e irrinunciabile a mezzo di quel novello sapientino che è internet.
7 Jerome, 1978.
LeggiAgorafobia in pandemia. Effetti imprevisti e imprevedibili delle restrizioni
Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è.
Mark Twain
Il termine agorafobia deriva dal greco, ed è composto delle parole agorà (piazza) e fóbos (paura), e denota, generalmente, la paura degli spazi aperti o dei luoghi affollati, come le piazze, appunto. Parlarne adesso risulta quanto mai opportuno essendo arrivato il momento, e ogni giorno di più, di ripopolare le piazze e rinunciare alla forzata, anche se rassicurante per certi aspetti, protezione delle nostre capanne.
Nota tecnica: una definizione
La descrizione dell’agorafobia che ci fornisce l’ICD-11, pubblicato dall’OMS è la seguente:
“L’agorafobia è caratterizzata da una marcata ed eccessiva paura o ansia che si presenta in risposta a diverse situazioni dove la fuga potrebbe essere difficoltosa o ricevere aiuto possa essere difficile, come usare trasporti pubblici, stare in mezzo alla folla, essere fuori casa da soli, stare in coda. La persona è molto ansiosa riguardo queste situazioni, per la paura di specifiche conseguenze negative, come attacchi di panico o altri sintomi fisici imbarazzanti o invalidanti. Le situazioni sono attentamente evitate, se non con il supporto di una persona di fiducia, oppure, in assenza di costui, vissute con intensa paura o ansia.
I sintomi possono perdurare per mesi e invalidare il funzionamento della persona in una o più aree della propria vita”.
Anche il DSM-V dell’APA, sostanzialmente concorda con questa definizione, pur con qualche minima differenza.
Come funziona e come si crea l’agorafobia?
L’agorafobia si struttura quando una persona mette in atto determinati comportamenti di evitamento. Tali comportamenti, all’apparenza innocui e dettati dalle migliori intenzioni, se reiterati, costruiscono un circolo vizioso che diventa un problema.
La prima insidia nella quale si può inciampare è quella di evitare una situazione temuta…
LeggiEsperienze di Psicoterapia Breve Strategica – Genitori in Pandemia
Ciclo di conferenze promosso dal Centro di Terapia Strategica di Arezzo.
Lunedì 14 Dicembre ore 21, appuntamento con la Dott.ssa Giulia Rinaldi che terrà una conferenza online sul tema: Genitori in Pandemia “L’arte di allearsi strategicamente per aiutare i figli”.
La conferenza sarà frubile sulla pagina facebook ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo a questo indirizzo: https://www.facebook.com/centroditerapiastrategica/
Leggi
“Se non mi fermo, mi brucio”. La sindrome da burnout: trappole, rischi, strategie
Il dottor Giovanni Albertini e la dottoressa Giulia Rinaldi ci parlano di questa sindrome, che può essere definita come un esaurimento emotivo, a cui prestare particolare attenzione soprattutto durante la pandemia da Covid-19.
Sei come una teiera sul fuoco che ha finito l’acqua, ma il fuoco continua a bruciare
(Anonimo)
Burnout significa, letteralmente, bruciato. Tale termine viene utilizzato per la prima volta in psicologia dallo studioso Freudenberger1 , che lo usò proprio per descrivere la condizione di lavoratori che si ‘bruciavano’, a causa di una fatica a gestire lo stress lavorativo, con ricadute conseguenti sul loro lavoro, e sul loro benessere psicologico e fisico. Ironia della sorte, Freudenberger rilevava che i maggiori rischi li hanno le persone che hanno molto interesse per il proprio lavoro.
Uno sguardo “tecnico”
La sindrome da burnout viene definita nell’ICD-112 come una sindrome risultante da una condizione di stress cronico sul luogo di lavoro, caratterizzata da tre fattori principali:
la sensazione di esaurimento delle energie;
sentimenti di negatività e di disinteresse verso il proprio lavoro;
una sensazione di inefficacia o di mancanza di capacità realizzativa.
La classificazione di questo tipo di sindrome è ancora molto dibattuta nel mondo degli studiosi di psicologia. Infatti, per alcuni, si tratta solamente di una forma depressiva, tanto da non essere da essa distinguibile3; per l’OMS, invece, la sindrome da burnout, va considerata come una condizione a sé stante, a patto che non sia distinta dall’ambito lavorativo. Per altri ancora, invece, può manifestarsi anche in contesti diversi da quello lavorativo appunto, come in ambito familiare, quando i genitori possano faticare a prendersi cura dei figli e si “brucino” nella loro mansione4, o nel caso degli sportivi professionisti, che non riescono a mantenere il livello delle loro prestazioni. Generalmente se ne ha un alto riscontro nelle professioni cosiddette di ‘aiuto’, come medici e infermieri.
Il dibattito aperto attorno a questo tema, tuttavia, non ci impedisce di poterne parlare, e di suggerire alcune modalità con cui sia possibile fronteggiarlo.
Attenzione alle psicotrappole
Come si possa cadere nel burnout non è di facile spiegazione, i fattori sono molteplici, sia di natura personale, che organizzativa, che, in alcuni casi, legati a situazioni familiari. In Italia, per esempio, il D. Lgs. 81/08, obbliga le organizzazioni a valutare i rischi per lo stress all’interno dell’organizzazione stessa, al fine di tutelare il più possibile le persone dallo stress lavoro-correlato. In questo articolo, ci sembra opportuno occuparci di riconoscere alcune “psicotrappole”5 dentro le quali si può rischiare, involontariamente, di cadere.
- La psicotrappola delle aspettative: una prima psicotrappola da cui è bene guardarsi è quella delle aspettative. Spesso “chi si è fatto un’idea di ciò che è giusto e non è giusto fare, che ha elaborato una serie di valori etico-morali da rispettare che nella propria esperienza si sono rivelati vantaggiosi per sé e per gli altri, trova molto difficile immaginare modalità alternative per pensare e gestire la vita. Così, di fronte al comportamento diverso degli altri, magari di qualcuno in cui si ripone grande fiducia, queste persone vanno profondamente in crisi”6. È quindi importante tenere presente il rischio di “scoraggiarsi” e di perdere l’entusiasmo – fino a sviluppare vere e proprie sintomatologie depressive – quando il mondo (le situazioni che ci troviamo ad affrontare o le persone con cui entriamo in relazione) non agiscono sulla base delle nostre idee o desideri. Ancor più quando queste “pretese” siano legittime, da un certo punto di vista.
Per sfuggire a questa trappola è importante cercare di tenere a mente che non sempre le cose vanno come vorremmo e valutare le situazioni sotto differenti prospettive. In questo modo si potranno ricevere anche cocenti delusioni, ma si eviterà l’incommensurabile frustrazione di scoprirsi a lottare contro i mulini a vento. - La psicotrappola dell’insistere: una ulteriore psicotrappola è quella di insistere tenacemente nell’impegnarsi più di quello che già si faceva di fronte a responsabilità lavorative che magari aumentano. In questo modo si trova a seguire il ragionamento: “se l’impegno che ho messo finora ha funzionato, basta aumentare il dosaggio”.
In questo caso si rischia di fare come un atleta che di fronte al desiderio di migliorare le proprie prestazioni, anziché modificare i propri allenamenti si limitasse ad aumentarli, con l’altissima probabilità di infortunarsi prematuramente. - La psicotrappola del sopravvalutare/sottovalutare: in questo terzo caso può accadere che si sopravvalutino le nostre capacità di affrontare alcune situazioni, o che ci troviamo a sottovalutare le circostanze in cui siamo immersi. Il pensiero “positivo” di dirsi “ho superato di peggio”, “posso – o devo – farcela da solo” da una parte è importante e sicuramente ci aiuta a tirare fuori risorse che non immaginavamo di avere. D’altro canto c’è il rischio che quando venga portato all’estremo ci schiacci, operativamente e relazionalmente.
Riconoscere i nostri limiti in questo senso è fondamentale. Avere bisogno di appoggiarsi a qualcun altro7, staccare o riposare, non è un fallimento in sé, ma la maturazione della consapevolezza che governare una nave in mezzo alla tempesta non è una operazione che si può fare facilmente da soli.
Per portare una situazione pratica, può accadere che una persona si trovi a incappare in una o più di queste trappole. Se da queste però non si riesce a uscire in tempi relativamente rapidi si rischia di incappare da prima in una situazione di esaurimento emotivo: “Sono stremato, non ce la faccio. Come posso risolvere questa situazione?”.
A questo punto, può accadere che, la risposta per riprendersi da questo esaurimento emotivo, sia un distacco freddo e quasi “cinico” dalla propria situazione lavorativa, e dalla relazione con le persone. A seguito di ciò, tuttavia, trovandosi in una situazione in cui si è affaticati, magari ci si è isolati, si cominciano a fare sempre più errori, viene a decadere la propria percezione di efficacia e di capacità personale, in una spirale discendente di peggioramento psicofisiologico e lavorativo, da cui può essere difficoltoso uscire autonomamente.
Perché parlare di sindrome da burnout?
Parlare di questa sindrome, in questo momento storico è fondamentale. La pandemia da COVID-19, infatti, espone a maggiori rischi del manifestarsi di questa sindrome.
Un recente studio, effettuato in Spagna su operatori sanitari, ha documentato una prevalenza di esaurimento emotivo intorno al 60%8.
Per quanto riguarda il resto della popolazione dei lavoratori non si hanno dati recenti, tuttavia uno studio eseguito qualche anno fa negli Stati Uniti, indicava che il 30% degli intervistati era a rischio di burnout9.
Aggiungere acqua alla teiera
Riprendendo la suggestione all’inizio di questo articolo, per non bruciarsi è necessario imparare ad aggiungere acqua alla nostra teiera.
All’atto pratico non è possibile dare una risposta univoca e valida per tutti, poiché ogni persona reagisce in modo diverso e più o meno intenso alle circostanze stressanti. Inoltre, è importante anche valutare il contesto organizzativo e familiare in cui la persona è inserita.
L’obiettivo di uno psicologo, è proprio quello di indagare questi fattori, e di aiutare la persona ad attivare quelle risorse che le permettano di fronteggiare in modo più efficace le situazioni stressanti, o a gestire meglio e con più ponderazione le proprie risorse, per evitare loro di cadere nel vortice oscuro della sindrome da burnout.
La strategia forse più indicata, è quella di aiutare la persona a sviluppare la resilienza10, cioè la capacità di assorbire gli urti, di cadere e rialzarsi, e rimettersi in cammino. L’unica “pecca” di questa strada, è che la resilienza si ottiene con non poco investimento di tempo e fatica, come prepararsi per la maratona di New York.
Ma alla fine, la cosa più importante di tutte è imparare a gestire il proprio ritmo, in base alle energie che si hanno da spendere.
Come diceva Confucio: «Non importa quanto vai piano, l’importante è non fermarti».
1 Freudenberger, 1974.
2 WHO, 2020.
3 Bianchi et al., 2015.
4 Mikoljaczak, 2020.
5 Nardone, 2013.
6 Ivi, p. 22.
7 De Carlo et al., 2013.
8 Luceño-Moreno et al., 2020.
9 Shanafelt et al., 2019.
10 Nardone et al., 2017.